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Titolo originale: id
Regia: Leonardo Di Costanzo
Interpreti: Toni Servillo (Gaetano Gargiulo), Silvio
Orlando (Carmine Lagioia), Fabrizio Ferracane (Franco Coletti),
Salvatore Striano (Cacace), Roberto De Francesco (Buonocore)
Genere: Drammatico
Origine: Italia/Svizzera
Anno: 2021
Soggetto: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia
Santella
Sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia
Santella
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: Pasquale Scialò
Montaggio: Carlotta Cristiani
Durata: 117'
Produzione: Carlo Cresto-Dina per Tempesta con RAI Cinema,
in coproduzione con Amka Films Productions, RSI Radiotelevisione
Svizzera, in collaborazione con Vision Distribution
Distribuzione: Vision Distribution (2021) |
L'incontro tra mondi diversi è un tratto
distintivo del cinema del regista Leonardo Di Costanzo. La sua è la
ricerca di una nuova armonia, di una rinnovata dignità dell'essere
umano. Per ragionare sullo scontro tra solitudini diverse, in "Ariaferma"
il cineasta porta lo spettatore all'interno di un carcere isolato. I
detenuti non sono molti, i secondini ancora meno. Gli enormi ambienti
della prigione fanno da contraltare a uomini disperati, che faticano a
trovare la loro voce in una realtà a tratti desolante. Lo 'scontro' è
tra il criminale interpretato da Silvio Orlando e la guardia con il
volto di Toni Servillo. Appartengono a due universi differenti, l'uno
all'apparenza sembra rifiutare l'altro. "Ariaferma" è una storia sulle
barriere da abbattere, sull'umiltà che non bisogna mai perdere. Il ritmo
è quieto, la macchina da presa rispettosa. Il prison movie trova una
vena intimista, profonda. Il dialogo sostituisce l'azione, i silenzi
accompagnano i momenti più significativi. Un film malinconico sulle
seconde occasioni, dove i fantasmi del passato si concretizzano nel
presente e fanno riflettere su un futuro in cui tutto forse è ancora
possibile.
Famiglia Cristiana - Gian Luca Pisacane - 14/10/2021
"Ariaferma" il nuovo film di Lenoardo Di Costanzo presentato Fuori
concorso all'ultima Mostra di Venezia - e tra i più amati della
selezione - conferma il talento di questo regista il cui gesto
cinematografico porta in sé, per rimodularla a ogni nuova prova
l'esperienza dei passaggi precedenti. Non si tratta (non solo) di 'generi',
il documentario che è stato il suo primo terreno di confronto col mondo,
e la 'finzione' - categorie formali che non appartengono alle sue opere
("L'intervallo", 2012; "L'intrusa", 2017): è questione di messinscena, e
di una 'giusta distanza' in cui tutto si gioca lungo le traiettorie
degli sguardi, nella presenza dei corpi, tra le geometrie degli spazi:
un giardino in "L'intervallo", un cortile in "L'intrusa".
Qui siamo nel carcere di Mortana, nella bellezza di un paesaggio della
Sardegna invisibile alle celle; gli universi che si scrutano l'uno
nell'altro sono interamente maschili tranne la direttrice del carcere
che esce quasi subito di scena. Hanno deciso di chiuderlo quel carcere,
gli agenti festeggiano, finalmente non dovranno più andare così lontano.
Ma all'improvviso il loro futuro cambia: un problema burocratico
costringe a rimandare il trasferimento di alcuni detenuti che
nell'attesa di una nuova assegnazione rimarranno lì, e con loro un
esiguo numero di poliziotti: due gruppi di uomini entrambi imprigionati
seppure con motivazioni e ruoli opposti.
'L'ordine di trasferimento può arrivare da un momento all'altro’ ripete
Gaetano, l'ispettore incaricato del comando. Di fronte a lui, a
rappresentare i dodici detenuti c'è don Carmine Lagioia, il capo
indiscusso, probabilmente camorrista, giunto a fine pena. Forse anche
per questo non sembra interessato a sobillare rivolte - se non una
protesta su ciò che non si può sopportare, quel cibo cattivo, lo stesso
peraltro che mangiano i poliziotti, consegnato dal servizio di catering.
Le due parti si osservano con diffidenza, gli agenti hanno paura, mentre
giorno dopo giorno la certezza di una soluzione rapida che ha persino
sospeso la 'normalità' quotidiana - le visite, la cucina - si allontana:
il tempo scivola e insieme si immobilizza. Da queste premesse la
scommessa del regista è quella di cercare un movimento narrativo che
'sorprenda' il teatro in cui avviene, e quanto vi rimanda. "Ariaferma"
non è un film 'carcerario' pure se del carcere restituisce il sentimento
di costrizione ma in profondità, senza l'enfasi o le convenzioni del
soggetto 'a tema': l'intuizione del regista è spostare sempre un po'
obliquamente il suo punto di vista grazie a una scrittura precisa sia
nella sceneggiatura - scritta insieme a Valia Santella e a Bruno
Oliviero - che sul piano cinematografico. Il punto di partenza dunque
per parlare del carcere sono le due figure che lo incarnano da una
diversa ma comune prospettiva: il detenuto don Carmine e l'ispettore
Gaetano, rispettivamente Silvio Orlando e Toni Servillo, protagonisti di
un magnifico duetto in sottrazione, che poi è la cifra del film, nel
quale si esalta anche la sua natura corale - grazie a un cast in cui
troviamo tra gli altri Salvatore Striano, Fabrizio Ferracane, Roberto De
Francesco, e molti magnifici attori non professionisti. Lo spazio tra i
due uomini disegna una geografia umana che oppone scontenti,
irrequietezze, insoddisfazioni, pregiudizi, e non semplicemente di una
parte verso l'altra - tra gli agenti c'è chi vorrebbe il 'pugno di
ferro', mentre i reclusi emarginano un anziano che si intuisce ha
commesso reati di pedofilia. Poi c'è quel ragazzo giovane, spaesato più
di tutti (il bravo Pietro Giuliano) finito in cella con una vita
disgraziata e un crimine commesso per avventatezza di cui sente su di sé
la colpa con dolore.
Quando la qualità pessima dei pasti diviene intollerabile scatenando uno
sciopero della fame che potrebbe degenerare, l'ispettore accetta la
proposta di don Gaetano: sarà il detenuto a cucinare mentre il
poliziotto lo sorveglia. Nella cucina con i coltelli in bella vista la
tensione è densa, cresce, accompagna ogni gesto: non accade nulla però
in quella stanza, tutto è altrove perché il confronto, con la presa di
parola che rimodula le relazioni seppure in uno stato eccezionale, è
umano e politico, ci parla delle casualità delle scelte, delle
esperienze comuni anche a chi, come i due, ora è su sponde diverse. E
interroga la vita nel suo svolgersi, e una realtà composta da infiniti
passaggi e contraddizioni. Mentre noi spettatori ci aspettiamo che
esploda il caos, la regia di Di Costanzo lo ha già fatto avvenire in
quei dialoghi, nei gesti pacati, negli istanti che superano - pur
mantenendone le gerarchie - la linea della separazione per inventare uno
spazio comune; quello di una diversa consapevolezza dell'altro, della
cura, dell'ascolto, qualcosa che riguarda il nostro tempo non solo nella
reclusione.
Il Manifesto - Cristina Piccino - 14/10/2021 |