L'Iran è una prigione a cielo aperto. E chi
lo denuncia finisce direttamente dietro le sbarre. È successo di nuovo
al regista Jafar Panahi, uno dei grandi del cinema contemporaneo e da
anni perseguitato dal regime degli ayatollah. Già limitato nelle sue
libertà, lo scorso luglio è stato arrestato per 'propaganda' contro il
governo. La sua colpa, oltre alle numerose prese di posizione, sono i
film girati senza permesso ufficiale, quando non clandestinamente,
nell'ultimo decennio.
Il più recente è "Gli orsi non esistono", presentato in concorso alla
79a Mostra del cinema di Venezia, dove ha ricevuto il premio speciale
della giuria. La pellicola arriva nelle sale in un momento in cui la
situazione del Paese del Medio oriente è all'attenzione del mondo dopo
le proteste e le violente repressioni di queste settimane.
Panahi, come nel precedente "Taxi Teheran", interpreta sé stesso, ospite
di un villaggio ai confini con la Turchia mentre cerca di girare un film
per interposta persona, proprio come fece tra gli anni '70 e gli '80 il
turco Yilmaz Güney, incarcerato dalla dittatura militare e vincitore
della Palma d'oro di Cannes con "Yol".
Un assistente del regista dirige, seguendo le indicazioni fornitegli per
telefono, un film su un uomo e una donna che aspettano di ricevere i
documenti (falsificati) per emigrare insieme in Europa e si interrogano
se non sia più semplice partire separatamente e ricongiungersi oltre la
frontiera. Intanto Panahi cammina per le stradine e scatta fotografie
degli scorci o delle persone, quando all'improvviso gli viene chiesto di
mostrare le immagini nella sua macchina fotografica e sul computer
perché avrebbe ritratto qualcosa che non doveva. Si scoprirà che aveva
colto con il suo obiettivo l'incontro di una coppia clandestina e la sua
fotografia potrebbe essere una prova per incolparli.
Il regista, che nel film si rifiuta di collaborare con il capovillaggio
e con i censori, è lo stesso che nella vita ha difeso le istanze di
libertà e raccontato le battaglie dei suoi connazionali e soprattutto
delle donne, dal corale "Il cerchio", che nel 2000 vinse il Leone d'oro,
a "Offside", Orso d'argento a Berlino nel 2006, con la storia di sei
tifose che si travestirono da uomini per assistere a una partita della
nazionale di calcio.
Stavolta la storia d'amore dei protagonisti si specchia in quella degli
amanti catturati per caso in una fotografia, entrambe cercano di
sfuggire a una realtà opprimente e a un destino che appare già scritto,
creando un efficace cortocircuito tra realtà e finzione. Intanto la
leggenda paesana vuole che sulle alture dei dintorni ci siano gli orsi
del titolo, ma si tratta solo di una voce diffusa per alimentare la
paura, non lasciare avvicinare al confine e controllare il popolo.
In modo molto intelligente, con una metafora chiara e calzante Panahi
denuncia i timori indotti, la sorveglianza sociale, le manipolazioni, le
tradizioni retrograde e pure i trafficanti di persone lungo la
frontiera. Un gran film degno del suo maestro Abbas Kiarostami, che
riesce a toccare la mente e la sensibilità degli spettatori.
L'Eco di Bergamo - Nicola Falcinella - 06/10/2022
Il nuovo lungometraggio di Panahi, Premio Speciale della Giuria alla
Mostra veneziana e in sala dal 6 ottobre per Academy Two, non è solo un
film sulla (sua e nostra) realtà, ma anche, e soprattutto, un film sul
cinema, e sul rapporto sempre più problematico che l'una e l'altra cosa
intrattengono nel mondo di oggi. Dove, al netto dei ponti telematici, i
confini fisici, culturali e politici fra terre e persone sembrano
ostacoli insormontabili. Ed ecco allora che il (vero) dramma del regista
e dell'uomo scorre prima, durante e oltre la parabola de "Gli orsi non
esistono".
Dove è lo stesso Panahi, di nuovo protagonista dei suoi lungometraggi
semiclandestini, a interpretare un regista impegnato a girare un
documentario da remoto in un villaggio iraniano al confine con la
Turchia. È già tutto nella prima sequenza del film, dove una coppia di
migranti irregolari tenta di raggiungere l'Europa, finché il movimento
della videocamera e lo stop del cineasta non svelano l'artificio, lo
schermo attraverso cui Panahi dirige la troupe situata oltre la
frontiera che lui non può varcare. Ancora una volta, nella produzione
recente del filmmaker iraniano, ci muoviamo al confine mai così
sfuggente tra finzione e suo contrario. Perché, ovunque si trovi questo
confine, non cambia la responsabilità di chi per vocazione e professione
racconta l'umanità attraverso le immagini. Così, mentre lavora al
(finto) doc, il Panahi personaggio finisce al centro di uno scandalo nel
paesino in cui è ospite, a causa di una foto che (forse) ha scattato ad
una coppia di ragazzi, ostracizzata dai notabili locali (lei promessa
sposa dalla famiglia ad un altro, lui espulso dall'università per aver
partecipato a una manifestazione).
L'oggetto temuto e ricercato è dunque un'immagine che non sappiamo
nemmeno se esista davvero. A contare è il gesto, il cortocircuito
innescato nella società e nella coscienza dagli strumenti audiovisivi,
con i frammenti di spazio e tempo da essi immortalati e riprodotti. È
quell'afferrare pezzi di reale (anche) nella rappresentazione, il
peccato che mette in crisi i poteri vecchi e nuovi, grandi e piccoli,
quando il mezzo non sia sotto il loro controllo. È il sottrarre attimi
di Storia al fiume di una tradizione rinnovante gerarchie, soprusi,
tabù, superstizioni (come quella sugli orsi che dà il titolo al film),
l'atto che supera il confine costituito tra lecito ed illecito.
Concepire, registrare, salvare sguardi è il moto sovversivo per
eccellenza. Ce lo confermano, oggi, le immagini delle donne che nella
stessa Repubblica islamica protestano a rischio (e a costo) della vita
per i loro diritti negati. E, prima che la rivolta scoppiasse, ce lo ha
ricordato Panahi. Con la forza di una sobrietà stilistica dietro e
dentro la quale si agita una consapevolezza del mezzo filmico, e del suo
statuto ambiguo.
Ciak - Emanuele Bucci - 2022-10-105 |