Accettare la normalità della vita. Quella di
rapporti familiari difficili, di amori così così e di ambizioni un po’
frustrate.
La situazione si presenta ai due fratelli Savage, Jon (Philip Seymour
Hoffman) e Wendy (Laura Linney) che la normalità devono affrontare in
una forma davvero spiazzante: occuparsi del padre Lenny (Philip Bosco)
colpito da demenza senile.
Sorella e fratello, entrambi sulla quarantina, sono due adulti immaturi
che si proteggono dalla vita rifugiandosi all’ombra dell’arte, vivono in
città diverse e si vedono raramente.
Lei, avvizzita, vive a New York, fa lavori saltuari, trascina una
relazione con il vicino di casa sposato e affida tutte le sue speranze
ad una commedia che ha appena finito di scrivere. Lui, acido, insegna
lettere all’università, tenta da anni di completare una biografia su
Brecht e nello stesso tempo si rifiuta di sposare la ragazza polacca con
cui convive da anni anche se lei è a rischio di rimpatrio.
Un giorno una telefonata sconvolge la dimessa routine dei due: si tratta
di prendere in carico l’anziano padre, un tipo irascibile ed egoista da
tempo “fuggito” in una città per vecchietti sotto il sole dall’Arizona.
E’ proprio il padre a far ritrovare involontariamente i fratelli. Dove
portarlo dopo l’improvvisa morte della sua compagna? Chi si prenderà
cura di quel vecchio che con la sua trascuratezza ha contribuito a
nevrotizzare i figli? Ora che è rimasto solo e senza casa, come non
occuparsene?
Invecchiare stanca, morire è peggio ma anche durare troppo può essere
difficile. E’ quello che succede alla famiglia Savage, Lenny è sempre
stato un padre violento quasi sempre assente, ma il problema rimane: è
vecchio, ha perso la testa, il controllo del proprio corpo e va
accudito. Inizia così un viaggio tra case di cura, reciproche ripicche,
un viaggio nella propria sofferenza. Per Jon e Wendy è ora di diventare
adulti e proprio la malattia del padre con il suo contorno di angosce,
li costringerà a guardare in faccia i lati meno felici della vita. Si
può fuggire, si può fare finta di niente ma si può anche prendere
consapevolezza che le cose cambiano.
Trattare della vecchiaia, della famiglia e della morte senza scadere nel
melodramma è cosa ardua: ci riesce brillantemente Tamara Jenkins che,
prodotta da Alexander Payne (che aveva già trattato il tema anni fa con
“A proposito di Schmidt” con Jack Nicholson), firma un film
interessante, coinvolgente e sincero. La parabola dei due perdenti è
raccontata senza concessioni alla retorica e il loro rapporto con il
padre morente è quanto di più realistico, crudo ed essenziale si sia
visto da parecchio tempo a questo parte. La regista, candidata all’Oscar
per la sceneggiatura, ci fa riflettere sulla difficoltà di fare i conti
con la vita e sul film aleggia un’atmosfera cupa d’irrimediabile
impossibilità a cambiare le cose della vita illuminata, fortunatamente,
da lampi di graffiante ironia
Siamo di fronte ad un piccolo romanzo di crescita che l’autrice ha
scritto e diretto in chiave di sottile malinconia venata di humour e
senza mai cadere nel sentimentalismo che è stato presentato con successo
al Sundance Film Festival (Premio miglio Sceneggiatura) e al Film
Festival di Torino.
Efficace sulla carta, “La famiglia Savage” diventa memorabile grazie
all’interpretazione di tre attori eccezionali. Philip Seymour Hoffman
(Oscar per “Capote” visto l’anno scorso e candidato all’Oscar per “La
guerra di Charlie Wilson” inserito in questa stagione del cineforum e
innumerevoli altri premi) e Laura Linney (tre candidature all’Oscar e
anche lei un numero incredibile di altri premi) sono senza dubbio alcuni
tra i migliori attori della loro generazione, mentre la rivelazione per
noi è Philip Bosco, leggenda del teatro americano e caratterista di
straordinario talento che tratteggia, con una vena grottesca e ironica,
un uomo cui restano pochi giorni da vivere, scorbutico e ben lontano
dallo stereotipo di “nonnino gentile e affabile” cui il cinema ci ha
abituato.
Un film che invita a riflettere sul valore della vita, sulla sofferenza
da accettare, nonostante tutto, per amore, solo questo rende la vita
degna di essere vissuta. Certamente è impossibile non rimanere coinvolti
emotivamente e non immaginarsi un giorno a dover affrontare, sia come
figli che come genitori bisognosi d’aiuto, una situazione simile. |