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Titolo originale:
Id. Regia: Alice Rohrwacher
Soggetto: Alice Rohrwacher
Sceneggiatura: Alice Rohrwacher
Fotografia: Hélène Louvart
Montaggio: Nelly Quettier
Musica: Piero Crucitti
Scenografia: Emita Frigato
Costumi: Loredana Buscemi
Interpreti: Adriano Tardioli (Lazzaro), Alba Rohrwacher (Antonia
adulta), Tommaso Ragno (Tancredi adulto), Luca Chikovani (Tancredi
giovane), Agnese Graziani (Antonia giovane)
Produzione: Carlo Cresto-Dina, Tiziana Soudani per
Tempesta, Pola Pandora, Amka Films Productions con RAI Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 130'
Origine: Italia/Francia/Svizzera, 2017 |
Candidato alla Palma d’Oro all’ultimo
Festival di Cannes, dove ha vinto il prestigioso Prix du scénario (il
premio per la miglior sceneggiatura), “Lazzaro felice” è l’opera terza
di Alice Rohrwacher, che come nei film precedenti è anche autrice del
soggetto e della sceneggiatura.
La prima parte si svolge in una tenuta agricola, in un imprecisato luogo
che sembra fuori dal mondo e dal tempo, ferma all'epoca della mezzadria,
che la proprietaria, marchesa De Luna (Nicoletta Braschi) ha trasformato
in un carcere a vita per i suoi 54 contadini che, isolati dal mondo, vi
lavorano senza nulla pretendere, paghi di consumare coi compagni una
pagnotta e un buon bicchiere di vino. Uno di loro è Lazzaro (un
magnifico Adriano Tardioli), concentrato instancabile di bontà, sempre
pronto ad aiutare e a lavorare più degli altri, con un angelico sorriso
stampato sulle labbra. Sarà proprio lui il motore della favola che la
regista racconta in questo curioso, accattivante, malinconico magari
irrisolto ma coraggioso "Lazzaro felice".
La parte due balza avanti nel tempo, lo scenario cambia, il “caldo”
della natura lascia il posto al freddo incolore della metropoli,
introducendoci, in chiave di realismo magico, in un mondo urbano
dominato dagli squali della finanza, dove un residuo gruppo di contadini
continua a trascinarsi nella miseria all'ombra di fabbriche abbandonate.
Lazzaro si ritrova immutabile come solo il Bene può esserlo, sul cammino
di quei contadini cambiati, cresciuti, invecchiati. Perché Lazzaro è
portatore di quell’assurda “santità dello stare al mondo e di non
pensare male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri
umani”.
Scoprendo però, ad un tratto, di non essere più felice come un tempo,
pur ritrovando lontano dalla campagna un’altra luna da fissare.
Scoprendo di saper soffrire, e sempre in nome di una bontà “folle”,
capace di compiere scelte sbagliate, ma comunque incapace di far
soffrire gli altri.
Una favola, allora, quella della Rohrwacher, che utilizza lo sguardo
ingenuo, puro, innocente del protagonista per parlare degli ultimi, dei
diseredati, per dare loro quella dignità che, ieri come oggi,
viene negata. Ma senza svolazzi 'poetici' o compiacimenti d'autore, il
suo è un cinema diretto, acrobatico per quanto è sghembo e 'altro'
rispetto al recente cinema italiano.
Se il suo film precedente parlava del meraviglioso, Lazzaro felice
racconta "la santità dello stare al mondo senza miracoli, senza poteri o
superpoteri", esprimendosi in una lingua della quale la stessa
Rohrwacher non conosce fino in fondo gli stilemi, ma che cerca di
imparare immaginandosela, spingendo anche noi a fare altrettanto.
Lazzaro cammina felice - e in qualche modo indenne - in mezzo a inganni
grandi e piccoli, portando la sua verità senza giudicare nessuno. E,
senza l'obbligo di convincere, crede ancora nella fondamentale bontà
dell'uomo, della quale non chiede mai prova poiché ne è lui stesso
conferma. |